PALA della SS. TRINITA’

Il quadro

La pala della Santissima Trinità, custodita nella parrocchiale omonima del borgo bassanese di Angarano, è un’opera di fondamentale importanza nella produzione della prima maturità di Jacopo dal Ponte, sia per la straordinaria bellezza del dipinto, sia per la ricchezza e la complessità dei contenuti che ispirarono le scelte figurative dell’artista.
La tela, in origine rettangolare, era stata realizzata appositamente e collocata direttamente sulla mensa dell’altare dell’antica chiesetta della Santissima Trinità, che dipendeva dalla pieve matrice di Sant’Eusebio. La costruzione di tale edificio, doveva essere già a buon punto in occasione della visita pastorale del vescovo Pietro Barbo (1460) ma i lavori non erano ancora stati ultimati nel 1521, in occasione del passaggio del cardinale Francesco Soderini. Pur collocato e quasi ininterrottamente rimasto all’interno di quella che è diventata più tardi la parrocchiale di Angarano, il dipinto della Santissima Trinità fu oggetto di attenzione già da parte del veneziano Ridolfi (1648) che nella sua biografia di Jacopo dal Ponte riferì: “Figurò la Santissima Triade, con Angeli intorno, alcuni de’quali suonano strumenti e à piedi finse un naturale paese, ove entrano tuguri e una vecchia, che porta le ocche al mercato”.
Il bassanese Giambattista Verci (1775) vide il dipinto sull’altare maggiore della chiesa riedificata su progetto di Giovanni Miazzi (1740-61) e lo descrisse riprendendo puntualmente le parole del Ridolfi e aggiungendo solo: “Essa è della sua prima maniera, di cui abbiamo avuto più volte occasione di parlare in questo trattato”. La costruzione della nuova abside nel 1870 fu all’origine della collocazione in alto della pala del Bassano, che è stata ripristinata, a conclusione del restauro e della esposizione al pubblico nella primavera 2007.

Modalità di realizzazione

Il Libro secondo di dare ed avere della famiglia Dal Ponte con diversi per pitture fatte, l’unico superstite dei quattro libri mastri che documentavano la produzione artistica della bottega dei Dal Ponte, pubblicato dal Muraro (1992), offre preziose informazioni sulle modalità di realizzazione della pala della Trinità. La carta 24 verso riferisce dell’accordo stipulato il 16 novembre 1533 tra monsignor Giovanni Brevio, patrono della chiesa della Trinità, il suo cappellano pre’ Egidio ed alcuni cittadini angaranesi da un lato e dall’altro Francesco dal Ponte il Vecchio, padre di Jacopo, che si impegnava a realizzare una pala “con la Ternítà et colone due quare al due tonde indorate et le tonde de biaca brunita” in conformità ad un disegno già in mano al suddetto pre’ Egidio. Il prezzo pattuito era di 50 ducati, di cui 25 da versare entro Pasqua, prima che la pala fosse finita e altri 25 da saldare in altre due rate entro le due Pasque seguenti.
Si trattava certamente di una commissione impegnativa e dispendiosa per la comunità di Angarano e il coinvolgimento del Brevio, protonotario apostolico veneziano, alla stesura del contratto attesta come la realizzazione della pala si prefiggesse un ambizioso obiettivo, forse ottenere per la Santissima Trinità il diritto alla conservazione delle Specie Eucaristiche, risultato che tuttavia non fu raggiunto che nel XVII secolo (Savini 1999).
Subito dopo, sullo stesso foglio del Libro secondo è riportato il contratto stipulato il 6 marzo 1547 in casa di Jacopo Bassano, per cui ser Tomio, “sinico del dito comun de Angaran”, gli amministratori della chiesa ed altri personaggi del comune di Angarano si chiamano “veri e liquidi debitor de maestro Jacomo e fradelli” di 25 ducati per la pala “che li hanno fato con la Santissima Ternità”, somma che si impegnavano a versare in due rate, rispettivamente entro Pasqua 1547 e entro quella 1548.
Tra la commissione nel 1533 e la realizzazione nel 1547, nel Libro secondo è segnalato il pagamento nel 1534, da parte di Jacopo, di un “mozenigo” a certo “Felipo torniero”, per conto dell’esecuzione di “due colone tonde” per la pala della Trinità e sono riportati una serie di versamenti in denaro ma anche consegne di una “tela braza 7”, di frumento e di vino ricevute il 16 novembre 1533 da vari abitanti di Angarano in conto della pala da eseguire.
Altri conferimenti furono segnati nel 1542, 1544 e 1546 e il 26 febbraio 1547; a saldo poi della rata prevista per il 1547, vari pagamenti sono indicati tra il giugno e l’agosto di quell’anno. Un’annotazione a margine, probabilmente di mano di Jacopo, accenna a una non ben specificata sentenza e ad una “retencion”, circostanze di cui vi è ulteriore conferma ancora in una nota del 13 marzo 1548. Tali fatti vanno posti in relazione con difficoltà di pagamento da parte del comune di Angarano, confermate dagli Atti della Vicinia del Comune di Angarano, conservati presso l’Archivio Comunale di Bassano, in cui si leggono una serie di versamenti comunali nell’agosto 1547 a saldo di anticipi di spesa eseguiti dai cittadini e il compenso conferito a un certo Baldissera per essere stato incarcerato per debiti, in rappresentanza del Comune e su istanza di Jacopo dal Ponte. La stessa sorte toccò probabilmente nel 1548 ad un tale Francesco Moreto, prima che fosse finalmente saldato il compenso per la tela della Trinità.
Il ritardo nella esecuzione del dipinto fu giustificato dal Rearick (1992) con l’assenza di Jacopo verso il 1535 per un viaggio a Venezia e con la successiva malattia di Francesco dal Ponte il Vecchio, morto nel 1539, mentre il Signori (1992) ritenne fosse causato dalla grave crisi economica che angustiava il comune di Angarano, dopo l’infausta conclusione di una lite confinaria con Valstagna.

autenticità e datazione

Le indagini radiografiche e riflettografiche eseguite sulla pala (Scardellato 2007) hanno documentato come all’interno della bottega dei Dal Ponte si siano avvicendate diverse parziali redazioni dell’iconografia trinitaria, occultate dalla esecuzione dell’opera attuale, conclusa entro marzo 1547.
L’assegnazione a Jacopo della pala della Trinità, confermata dalle fonti, è accettata all’unanimità dalla letteratura critica, che ha individuato nell’opera il già avvenuto superamento dell’influenza dell’atelier veneziano del veronese Bonifazio de’ Pitati, con cui il Dal Ponte era entrato in diretto contatto verso il 1535 e ai cui modi si era prevalentemente ispirato nel corso del quarto decennio del secolo. Soltanto il Rearick (1992) ipotizzò la partecipazione al dipinto del fratello di Jacopo, Giambattista, che avrebbe a suo avviso realizzate le figure dei putti. Ancora prima che fosse noto il completamento della tela nel 1547, alla pala di Angarano erano state attribuite diverse datazioni, dal 1540 proposto dal Bettini (1933) all’inizio del quinto decennio suggerito dall’Arslan (1931 e 1960), alla collocazione verso il 1545 sostenuta da Magagnato (1952) e da Pallucchini (1957 e 1982), fino allo spostamento al 1550 ipotizzato da Longhi (1948). La sicura datazione al 1547 della pala ha permesso di porla puntualmente in relazione con la produzione artistica di Jacopo del quinto decennio.

L’opera nel suo insieme

Nell’opera impressionante è la monumentalità e la potenza espressiva del gruppo centrale, che si apre come un immenso ostensorio (Muraro 1992).
Il dogma trinitario è dominato dalla figura del Padre, dall’espressione corrucciata e intimamente turbata, la cui struttura massiccia è ulteriormente accentuata dalla plasticità dei drappeggi del manto rosato e la cui potenza è sottolineata e quasi incoronata dal virtuosistico groviglio del panneggio soprastante. Al di sotto di uno Spirito Santo-colomba, un Cristo dalla corporatura esile, i cui tratti emaciati rivelano i segni della fragilità fisica e della sofferenza, è abbracciato dal Padre, che sorregge da un lato il braccio orizzontale della croce a tau e dall’altro lambisce con la mano il polso insanguinato del Figlio.
Il corpo del Crocifisso è inchiodato ad un lignum che è saldamente confitto nel terreno roccioso, la cui aridità è solo interrotta da un cespo di foglie, isolata testimonianza dell’abilità nella rappresentazione dei particolari naturali per cui Jacopo andava famoso (forse si tratta di una pianta di aloe, simbolo di immortalità).

La croce si erge sopra il teschio di Adamo e sui resti dell’albero della vita, indicando così come il Sacrificio di Cristo sia l’evento centrale nella storia della Salvezza. La Trinità, in ciò rispettando la diffusa convinzione teologica sulla impossibilità di rendere altrimenti visibili il Padre e lo Spirito, è raffigurata principalmente come Cristofania (Berdini 1997).
La potenza visionaria del gruppo trinitario è ribadita dal contrasto tra la luce abbacinante che lo circonda e le nubi minacciose e corrusche che gli fanno da corona, nubi che due putti dal basso cercano faticosamente di allontanare e sopra le quali si ergono ai lati altri due fanciulli, uno con in mano un flauto e una corona di fiori, l’altro, identico a quello che compare nella Madonna in trono con il Bambino e i Santi Giovanni Battista e Zeno della parrocchiale di Borsa del Grappa (1538), che regge un tamburello, tutti intenti a celebrare la Redenzione e la Regalità divina.

Nel gruppo centrale della Trinità è evidente come Jacopo Bassano abbia assimilato il linguaggio manieristico principalmente attraverso la mediazione delle opere di Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone, di cui si ricorda la pala di identico soggetto realizzata nel 1535 per il duomo di San Daniele del Friuli. La ripresa di motivi parmigianineschi, forse mediati dalle stampe (è noto che Jacopo Bassano era appassionato collezionista di opere grafiche) ma probabilmente filtrati tramite la pittura dello Schiavone è visibile nella pala di Angarano nel sottile ed elegante linearismo dei panneggi del perizoma del Crocifisso.
Peraltro, come ha avuto modo di rilevare il Ballarin (1964), per Jacopo dal Ponte “Il quinto decennio del secolo…è del resto caratterizzato da una libertà spericolata di esperienze che non teme di cimentarsi sulle chiavi più diverse della tastiera manieristica italiana e nordica e che non ha riscontro in alcun altro momento della biografia del pittore”.

La potente invenzione del manto rosato e rigonfio del Padre Eterno si aggancia sul piano figurativo all’insistito roteare di drappi che ricorre, a sottolineare enfaticamente rappresentazioni sacre e profane, in varie opere realizzate da Jacopo nel quinto decennio, dal manto arcuato del Marco Curzio della Porta Dieda (1541-1542) a Bassano del Grappa a quello gigantesco di Sant’Andrea, al centro della Pesca miracolosa della National Gallery di Washington (1545), ai vessilli agitati dal vento nei Santi Orsola, Valentino e Giuseppe dalla parrocchiale di Mussolente (1542-1543), nell’Adorazione dei Magi della National Gallery of Scotland di Edimburgo (circa 1542) e nell’Andata al Calvario del Fitzwilliam Museum di Cambridge (1543-1544). La natura squisitamente manieristica di tali esperimenti formali emerge in tutta la sua potenza nel sofisticato e quasi lirico drappeggio dell’angelo-guida della Fuga in Egitto del Norton Simon Museum di Pasadena (1542) e nel moto ascensionale dei panni e del vessillo all’insù, verso l’angelo sterminatore del Martirio di Santa Caterina già in San Girolamo ed ora al Museo di Bassano (1544).
Al di sotto del gruppo trinitario si stende un paesaggio lacustre, solcato da imbarcazioni, giocato su diverse sfumature di azzurro, che si estendono anche ai monti che lo cingono lateralmente, uno sfondo che, pur riconnettendosi idealmente alle vedute della valle del Brenta delle tele di Francesco dal Ponte il Vecchio, richiama assai da vicino esempi di area lombarda, gli ampi fondali a volo di uccello in cui eccellevano il Savoldo, il Moretto e il Lotto (Ballarin 1967). Una più specifica connessione all’arte nordica è stata proposta per la prima volta dallo Zottman (1908), che individuava in un’incisione di Sebald Beham il riferimento iconografico per la tela di Angarano, oltre a cogliervi significative assonanze con la Trinità rappresentata da Albrecht Dùrer nell’Altare Landauer (1507-1510) Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Jacopo sembra poi essere stato in contatto ancora precocemente con l’opera di Jan van Scorel, che fu in Veneto prima e dopo il suo viaggio a Gerusalemme (1520-1526) e con la pittura di Lambert Sustris (Rearick 1992); da questi maestri fiamminghi, ma forse anche dalle vedute di Joachim Patinir presenti abbondantemente presso collezionisti veneti, Jacopo sembra aver assimilato quell’azzurro intenso e profondo, quasi di smalto, che accomuna cielo e paesaggio.
La tecnica pittorica “a colpi di pennello”, che si nota particolarmente nelle vesti del Cristo, nella resa degli incarnati, nella colomba-Spirito Santo realizzata con grossi tocchi materici, permette di individuare, nel dipinto della Trinità un precoce avvicinarsi ad una cromia più vibrante e inquieta, quale si può ammirare nella Madonna in gloria e i Santi Antonio abate e Ludovico di Tolosa del duomo di Asole (1548-1549).

Pala intrisa di significati religiosi
La tela di Angarano, anche questo in analogia a quanto avveniva nella pittura di oltralpe, è completamente intessuta di significati religiosi, in parte espliciti, in parte nascosti in dettagli all’apparenza episodici o decorativi.
La vera natura delle convinzioni religiose del pittore ha interessato vari critici, che si sono sforzati di leggerla alla luce del clima spirituale che in Veneto e a Bassano coincise con l’apertura del Concilio di Trento (1545).
La circostanza, riferita dal Verci, di una lunga permanenza ad Enego di Jacopo dal Ponte, che il Rearick (1978) situò tra il 1555 e il 1557, fu interpretata dallo studioso come indizio di nascosta adesione a idee protestanti, tali da costringerlo in quell’occasione ad abbandonare prudentemente Bassano. Tale opinione fu in seguito abbandonata dallo stesso Rearick (1986, 1992), nella convinzione che l’artista, pur rimanendo all’interno dell’ortodossia cattolica, fosse intimamente sensibile all’esigenza, particolarmente viva negli ambienti riformati, di una conoscenza più diretta e personale delle Sacre Scritture.
L’Aikema (1996) ha visto nella pala della Trinità un’affermazione del dogma contro la negazione di esso, sostenuta in quegli anni dagli Antitrinitari, setta diffusa nel Vicentino ed un pressante richiamo, da parte di Jacopo, contro i pericoli della tepiditas, cioè dell’indifferenza di coloro che sono affannati dalle cure terrene. La Savini (1999) ha colto nella tela di Angarano la assoluta centralità del tema eucaristico, individuandone i segni sia nella aceentun7ione anche emotiva della Passione di Cristo, generatrice della salvezza, cui i fedeli possono accedere grazie alla partecipazione al sacrificio eucaristico, sia nella scelta iconografica operata da Jacopo di rappresentare il Crocifisso inserito nel gruppo della Trinità, secondo la tipologia definita da Martin Lutero come Trono di Grazia, le cui origini sono individuate in miniature che illustravano il Te igitur, con cui iniziava la celebrazione della Messa secondo il canone latino.
Diffusa in Europa settentrionale dal XII secolo questo tipo di figurazione trinitaria, effigiata anche da Albrecht DCirer nell’Altare Landauer (1507-1510), è piuttosto rara in Italia, ove compare dal XV secolo; ne sono esempi cronologicamente vicini la già citata Trinità del Pordenone nel duomo di San Daniele del Friuli (1535) e quella scolpita da Giovanni Battista Krone per Santa Corona in Vicenza (1533).

L’intero gruppo trinitario è poi avvolto nella nube, che due angeli-putti spingono dal di sotto quasi a voler allontanare. La Savini (1999) ha collegato tale raffigurazione con (‘esegesi agostiniana che identificava il velo del tempio squarciatosi alla morte di Cristo con la nube veterotestamentaria, dissipata dalla Morte e dalla Resurrezione divina.

paesaggio sottostante

Ai piedi della croce
S. Agostino e il bambino
Al centro della pala, sulle rive del bacino lacustre, è citato il celebre racconto, riferito dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, in cui Sant’Agostino, nel contrastare la volontà espressa da un fanciullo, in cui sì voleva identificare Gesù bambino, di svuotare le acque del mare attingendole con un secchiello e versandole in una buca, ne ricevette la cruciale obiezione che allo stesso modo era per lui impossibile penetrare a fondo e completamente il mistero della Trinità.
L’episodio introduce nell’economia figurativa del dipinto le opere dottrinarie agostiniane, il De Trinitate e il De Civitate Dei, in cui compare la contrapposizione Città di Dio e Città di Satana, in conformità alla quale è organizzata la porzione inferiore della tela di Angarano, nella convinzione condivisa di un intervento divino grazie al quale la prima sarà destinata a prevalere.
Il golfo ampio e digradante, che sí apre al di là di Sant’Agostino e del fanciullo riproduce esattamente quello visibile nella Pesca miracolosa (Washington, National Gallery) realizzata da Jacopo per il podestà di Bassano Pietro Pizzamano nel 1545, utilizzando una xilografia di Ugo da Carpi tratta dall’arazzo di analogo soggetto realizzato da Raffaello per la Cappella Sistina. Identica nelle due tele è anche la riproduzione, ai margini, della veduta di Bassano.
La città di Bassano
L’inserimento della città natale è frequente nelle opere di Jacopo dal Ponte specialmente nel quinto decennio. Lo si nota anche nei due Noli me tangere delle parrocchiali di Oriago (1543-1544) e di Onara di Tombolo (1546), nell’Adorazione dei pastori (1546 circa) e nel Buon Samaritano (1547 circa) di Hampton Court, nel Riposo lungo la fuga in Egitto della Pinacoteca Ambrosiana (1547 circa).
La rappresentazione della città, pur parziale, rispecchia fedelmente la cerchia delle mura merlate, le torri, il Porto di Brenta, con la banchina, le imbarcazioni e il suo caratteristico arco, demolito nel 1925. Bassano, cui l’artista testimonia un profondo attaccamento, è significativamente collocato sulla destra del dipinto, in ideale appartenenza alla Civitas Dei.

Le abitazioni a destra e a sinistra e i personaggi

Sullo stesso lato, al di qua del bacino acquatico compaiono alcune abitazioni, in buono stato.
ln esse è illustrata l’attività di una conceria, mestiere esercitato in passato dal nonno di Jacopo, originario da Gallio ed allora proprio dello zio paterno Bado.
Sono illustrate in dettaglio le diverse fasi della lavorazione: si nota un capannone destinato all’asciugatura delle pelli con all’interno una vasca dipinta di bianco ed un torchio per spremere il pellame. Davanti all’edificio si nota un personaggio addetto alla conciatura; un altro operaio, gravato di un fardello, incede faticosamente verso le acque, forse per provvedere alla fase del risciacquo della produzione.
La descrizione fin nel dettaglio delle attività di una conceria rispecchia la frequentazione da parte di Jacopo, anche in forza dei legami parentali con l’ambiente dei “pellizzari” (cfr. Fabris 1991 e 2005; Signori 1992; Marini 1992). A tale ambiente apparteneva in gioventù, in quanto figlio di Giovanni Grandi, un “pellizzaro” originario da Colonia, anche Antonio l’eremita, personaggio celebrato per le eccezionali virtù e legato da profonda amicizia con il fratello sacerdote di Jacopo, Girolamo, a cui Antonio dettò nel 1545 il suo testamento spirituale.

Capanne e case diroccate sulla sinistra
La rappresentazione di capanne e case diroccate sul lato sinistro della pala, che ripropone figurazioni frequentissime in ambito nordico ed attestate anche in area veneta, in particolare nelle stampe dei Campagnola, costituisce un repertorio ricorrente per la produzione di Jacopo Bassano. Particolare è tuttavia l’insistenza sul tema in opere del quinto decennio, come l’Adorazione dei Magi della National Gallery of Scotland di Edimburgo (circa 1542), la Fuga in Egitto già nella chiesa della Santissima Annunziata ad Ancona, ora al Museo di Toledo, Ohio (circa 1542), l’Adorazione dei pastori di Hampton Court (1546), la Madonna in gloria del duomo di Asolo (1548-1549).
Nella pala della Trinità, a queste abitazioni sconnesse e pericolanti, la prima delle quali mostra un tetto per larga parte privo di copertura, è indubbiamente associato un valore di ordine negativo, collegato a significati di precarietà e di pericolo. In tal senso va letto il particolare del fuoco che arde all’interno di una capanna (si pensi in proposito agli inquietanti “paesaggi di fuochi” diffusi nella tradizione fiamminga, da Bosch al Civetta). Da esso un personaggio esce correndo verso l’esterno e pare sbattere addosso ad un muro, che parzialmente ne occulta la figura.
A lato della casa con il tetto scoperchiato si nota la figura a scala ridotta di un uomo aggomitolato in se stesso, che sembra dormire. L’introversione e l’inattività che lo caratterizzano inducono a ritenerlo personificazione del vizio dell’Accidia.

I due contadini

Singolare, tanto da attirare l’attenzione del Ridolfi e del Verci è il particolare dei due contadini, l’uomo che sostiene un bastone sulle spalle, la donna, anch’essa con le mani occupate a reggere merci da portare al mercato, che porta sul petto una cesta con un’oca. Si tratta di due personaggi già comparsi in un’altra opera di Jacopo, la già ricordata Fuga in Egitto, realizzata per la chiesa della Santissima Annunziata ad Ancona e attualmente al Museo di Toledo, Ohio (circa 1542).
La coppia dei contadini si allontana stoltamente dal gruppo della Trinità, diretta, attraverso un sentiero pianeggiante, ad una boscaglia oscura. La loro immagine è tratta dalla grafica d’oltralpe. In particolare la vecchia con l’oca in grembo è raffigurata in un’incisione di Sebald Beham del 1520 (Aikema, 1996).
I due contadini, come anche l’armigero e la dama che compaiono piccolissimi sul lato destro, davanti al gruppo di assi che fiancheggia la conceria, derivano puntualmente dalle xilografie di Hans Schaufelein (1538-1540) ad illustrazione di un poemetto ironico di Hans Sachs, L’eremita con l’asino, che poneva in ridicolo la sciocca insipienza dei villani (Brown 1999).
Nella lettura di Bernard Aikema (1996), la coppia di popolani, nel suo ignorare la presenza divina e nell’incedere, noncurante, in un cammino orientato all’oscurità, è la vivente rappresentazione della tepiditas, l’indifferenza e l’incredulità di molti che contrasta con la fede e l’intima partecipazione dei veri credenti.

Il paesaggio sottostante visone dell’umanità divisa tra bene e male

Rispetto alla apparizione centrale e abbacinante del Mistero Trinitario, il paesaggio sottostante ambisce a divenire quasi una visione cosmica della umanità, distinta in due polarità, positiva e negativa.
Sulla destra si coglie una rappresentazione serena e ordinata del mondo, che in buona parte coincide con la realtà quotidiana in cui Jacopo vive, in cui si svolgono episodi di operosità e di concreta adesione al piano divino di Salvezza; sulla sinistra, in un ambiente desolato e insicuro, è raffigurata l’immanenza del limite umano e del peccato, manifestati con tableaux vivants della cecità, dell’indifferenza e dell’accidia.

Donata Samadelli

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